Caritas
Diocesana di Trivento

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Domenica 15 novembre siamo invitati da Papa Francesco a celebrare la quarta
Giornata Mondiale dei poveri. Quest’anno il titolo della giornata è un versetto tratto
dal libro del Siracide dell’Antico Testamento: «Tendi la tua mano al povero».
È un messaggio che ci raggiunge in un tempo di forte crisi economica, sociale
e sanitaria, acuite dalla pandemia del coronavirus, e che provocano da una parte
nuove povertà – quelle di chi finora era vissuto in una modesta agiatezza e si sentiva
protetto dai mali di questo mondo – e dall’altra accrescono i bisogni di chi invece già
viveva situazioni precarie e di indigenza.
Come il popolo d’Israele, duecento anni prima della nascita di Cristo, viveva
“in un momento di dura prova … un tempo di dolore, lutto e miseria a causa del
dominio di potenze straniere”, così anche il nostro tempo è segnato dal pianto, dalla
mancanza di speranza, dalle preoccupazioni per la salute, il lavoro, le relazioni sociali
che diventano sempre più distanti, non solo a causa del distanziamento fisico dovuto
al covid, ma anche agli egoismi che ci abitano.
La medicina che la sapienza del Siracide prescrive per le nostre malattie, del
corpo e dello spirito, è prima di tutto imparare ad avere fiducia in Dio: «Non ti
smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia
esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende
dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del
dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui. Affidati a lui ed egli ti aiuterà,
raddrizza le tue vie e spera in lui. Voi che temete il Signore, aspettate la sua
misericordia e non deviate, per non cadere» (2,2-7).
L’esortazione che ci viene rivolta dal testo sacro è di diventare più forti nel
nostro spirito, ma ciò può essere una medicina anche per il corpo? E se lo è, come
può aiutarci ad affrontare il bisogno materiale, spesso assoluto e senza speranza, delle
persone? La risposta a questa domanda la troviamo nelle parole di Papa Francesco,
quando scrive, con una insistenza che sembra non voler concedere attenuanti ai
dubbiosi:
«Il costante riferimento a Dio, tuttavia, non distoglie dal guardare all’uomo concreto,
al contrario, le due cose sono strettamente connesse».
«La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili».
«Il tempo da dedicare alla preghiera non può mai diventare un alibi per trascurare il
prossimo in difficoltà».
Papa Francesco, in sostanza, ci richiama al nostro dovere di essere militanti
senza risparmio contro la povertà, a sentirci responsabili di quanto ci accade intorno e
davanti al quale spesso preferiamo distrarci, scegliendo di essere indifferenti per non
mettere in discussione il triste equilibrio della nostra tranquillità.
Ci sono due parole che mi hanno colpito nel messaggio di quest’anno e che
ricorrono spesso nei discorsi di papa Francesco, sono due parole che si pongono agli
estremi della nostra sensibilità morale e religiosa: “indifferenza” e
“responsabilità”.
L’indifferenza è presentata come una “barriera” che provoca isolamento,
emarginazione, divisione, «la fretta – ammonisce il Papa – trascina in un vortice di
indifferenza», mentre il nostro – se siamo capaci di cogliere quell’essenza che va
oltre l’apparenza delle cose – è un tempo favorevole per «sentire nuovamente che
abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e
verso il mondo […]. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci
gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà […]. Tale distruzione di ogni
fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i
propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce
lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente» (Lett. enc. Laudato si’, 229).
Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi
entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione
dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare
compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al
dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una
responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 54)
«“Tendi la mano al povero”, dunque, è un invito alla responsabilità come
impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte».
Una dura censura viene rivolta contro «l’atteggiamento di quanti tengono le
mani in tasca e non si lasciano commuovere dalla povertà, di cui spesso sono
anch’essi complici. L’indifferenza e il cinismo sono il loro cibo quotidiano».
Ecco allora che il papa parla di mani operose, mani che, come diceva don
Lorenzo Milani, anche se sono pulite ma tenute in tasca non servono. Non basta dire:
io non faccio male a nessuno, bisogna fare anche il bene.
Seguendo il libro del Siracide, che ci racconta l’antica sapienza dei nostri
“fratelli maggiori” ebrei, possiamo trovare le indicazioni per vedere nel volto dei
poveri il volto di Gesù e per comprendere dunque verso chi deve essere rivolta la
nostra responsabilità di uomini e di cristiani.
Dio abita, infatti, nella donna e nell’uomo feriti dalla fame, dalla sete,
dall’emarginazione, abita nella vita di chi vive nelle prigioni, abita nelle solitudini dei
cuori, nei dolori, nelle lacrime, nei volti segnati dalla malattie, cammina accanto al
profugo, naviga sulle barche dei migranti, siede accanto alla madre e al padre che
piangono la morte di un figlio, è vicino all’operaio in cassa integrazione, al lavoratore
che ha perso il posto di lavoro, ai giovani che sono costretti ad abbandonare la casa
dei genitori, la terra dove sono nati e cresciuti – quella dove hanno studiato, costruito
amicizie – per cercare lavoro in altre terre. Dio è in tutti questi volti, che recano il
segno delle ingiustizie subite da chi usa le mani, che dovrebbero essere operose e
feconde di bene, contro il proprio simile, « per sfiorare velocemente la tastiera di un
computer e spostare somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la
ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere
nazioni. Ci sono mani tese ad accumulare denaro con la vendita di armi che altre
mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà. Ci sono mani tese
che nell’ombra scambiano dosi di morte per arricchirsi e vivere nel lusso e nella
sregolatezza effimera. Ci sono mani tese che sottobanco scambiano favori illegali per
un guadagno facile e corrotto. E ci sono anche mani tese che nel perbenismo ipocrita
stabiliscono leggi che loro stessi non osservano ».
La giornata che papa Francesco ci chiede di dedicare alla preghiera e alla
riflessione sui poveri si può ancor più comprendere con la sapienza di una pagina del
vangelo, quella che leggeremo nella domenica che chiuderà il cammino dell’anno
liturgico. La grande e sconcertante pagina del vangelo che mette davanti ai nostri
occhi la scena del giudizio finale, dove tutto, anche il gesto più semplice, come
quello di dare o di rifiutare un solo bicchiere d’acqua fresca, diventa non solo
restituire il giusto al depredato della dignità umana, ma diventa scelta eterna, storia
decisiva. Padre Davide Maria Turoldo faceva notare come nella pagina del vangelo di
Matteo (25,31-46) non troviamo il verbo “amare”. Nel brano, Gesù non dice: avevo
fame, avevo sete, ero straniero, ero nudo, ero malato, in carcere … e mi avete amato,
ma «avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere,
nudo e mi avete vestito, straniero e mi avete accolto, malato e mi avete visitato, in
carcere e siete venuti a trovarmi». Qui l’amore diventa concretezza, pane, acqua,
accoglienza, vicinanza e non belle parole vuote e sciupate. In questa sapienza
evangelica il cielo si unisce alla terra, la preghiera alla quotidianità della vita.
Papa Francesco ha voluto ricordarmi tutto questo, recentemente, offrendo in
risposta a una mia richiesta di preghiera per gli operai, in cassa integrazione, della
GAM non solo la sua vicinanza spirituale, umana, ma anche un aiuto concreto per
evitare che il momento difficile vissuto dai genitori provocasse un disagio per i figli,
per la loro istruzione e perciò per il loro futuro.
Il suo è stato anche un gesto che mi ha ricordato come si debba saper guardare
al bisogno di chi ci è vicino per dare credibilità alle nostre azioni, alle nostre richieste
di aiuto per i poveri e gli offesi di tutto il mondo. La giornata della povertà, dunque,
ci impone di vincere la tentazione dell’indifferenza e di assumere su noi stessi la
responsabilità dell’intera comunità, dei suoi annosi problemi: quelli che tante volte
abbiamo evocato, come l’impoverimento delle nostre terre, lo spopolamento dei
nostri piccoli centri e delle campagne, la rarefazione dei pochi presidi dello Stato che
ancora resistono, come le scuole, gli uffici postali, gli ospedali. Tutto questo, giorno
dopo giorno, uccide la speranza, la serenità, la convivenza e ci rende tutti poveri di
futuro.
Eppure è proprio la drammaticità del tempo attuale che ci può condurre a una
visione diversa, a rivalutare l’importanza di ciò che in questi ultimi decenni abbiamo
perduto senza quasi muovere un dito delle nostre mani per evitarlo. Solo adesso,
forse, riusciamo a comprendere quanto siano importanti i piccoli plessi scolastici dei
paesi per garantire una vita scolastica sicura dei nostri figli, il funzionamento degli
ospedali abbandonati – come quello di Agnone -, in nome di calcoli economici che
hanno ribaltato l’ordine dei valori e delle necessità, inducendoci a considerare la
sanità come un costo piuttosto che come una ricchezza da distribuire per il benessere
dei cittadini. Gli uffici postali aperti, i servizi pubblici funzionanti, le strade
percorribili – segni di una società attenta ai bisogni di tutti e che considera un
demerito lasciare indietro i più indifesi, i più marginali – sono stati considerati un di
più, quasi un lusso, di cui non sarebbe stato uno scandalo privarsi.
Oggi siamo stati riportati alla verità nuda e cruda, dalla quale dobbiamo
ripartire.
C’è una riflessione che la lettera di Papa Francesco ci sollecita a fare: una
conclusione a cui ci conduce e da cui ci invita a ripartire per una nuova fase del
nostro pellegrinaggio di uomini e donne.
Tutti noi, vincendo l’indifferenza e diventando pieni di un sentimento di
responsabilità, aiutiamo certamente l’altro ma aiutiamo anche noi stessi, costruiamo
una comunità dentro la quale proteggerci, quando i tempi diventano duri e bisogna
rincuorarsi a vicenda per trovare il coraggio di guardare in faccia il futuro, con una
rinnovata, rigenerata, speranza di cristiani.
Ricordiamoci sempre delle parole del Signore: “I poveri saranno sempre con
voi” (Mc.14,7). Sono i compagni del nostro cammino perché in qualsiasi momento
possiamo esserlo noi. Per questo la Giornata Mondiale dei Poveri riguarda tutti,
credenti e non credenti. Solo la fraternità e la solidarietà sono le fondamenta della
convivenza umana.
Trivento, 12 novembre 2020
Sac. Alberto Conti
Direttore Caritas Trivento

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